Lia non potrà proteggersi da malattie come morbillo, parotite e rosolia. La madre: «Se tutti i bambini attorno a lei fossero vaccinati, anche lei sarebbe al sicuro. […] Non ha forse anche lei lo stesso diritto alla salute dei vostri figli?»
Lia, una bambina di due anni fino a quel momento perfettamente in salute, viene ricoverata d’urgenza all’ospedale pediatrico di Firenze. Responsabile del declino delle sue condizioni, una “banale” malattia infettiva, non prevenibile con vaccinazione, insieme ad una condizione di immunodeficit fino a quel momento non diagnosticata. A causa di quest’ultimo, Lia non potrà proteggersi contro malattie come il morbillo, la parotite e la rosolia. La madre Corinna: «Se tutti i bambini attorno a lei fossero vaccinati, anche lei sarebbe al sicuro. […] Non ha forse anche lei lo stesso diritto alla salute dei vostri figli?»
La nostra storia – perché, quando si ammala un bambino, è come se fosse l’intera famiglia ad ammalarsi – non ha a che fare in senso stretto con le vaccinazioni, ma con le "banali" malattie infettive, quelle che tutti prendiamo più di una volta nella vita.
Lia era una bambina sanissima. Aveva compiuto due anni da una settimana; la allattavo ancora, e aveva fatto tutte le vaccinazioni, anche quelle semplicemente consigliate. Per fortuna, aggiungerei, con il senno del poi.
L’incubo è cominciato con un paio di giorni di febbre. Nulla che non avesse mai avuto prima; ma una madre intuisce quando qualcosa non va. Il terzo giorno è sfebbrata, e tiro un sospiro di sollievo. «Sono semplicemente ansiosa» mi dico.
Ma quella notte, quella terribile notte, la febbre ricomincia a salire. Lia passa da una febbre altissima con vomito a una temperatura bassissima. Piano piano smette di parlarmi, in tre ore non è più lei.
L’indomani mattina, di buon’ora, chiamo la sua pediatra. Ma non faccio nemmeno in tempo ad accompagnarla all’ambulatorio, che inizia ad avere le convulsioni, interminabili e terribili; al termine delle quali non riacquista coscienza.
L'ambulanza vola verso l'ospedale. Per fortuna abitiamo in provincia di Firenze, dove c’è il Meyer, un rinomato ospedale pediatrico. Il viaggio sembra infinito, e comincio davvero a temere che potrei non stringere più la mia bambina tra le mie braccia; ma continuo a ripetermi che ce la farà.
Arriviamo in pronto soccorso. I medici dicono che Lia non risponde più neanche allo stimolo doloroso. Le viene assegnato un codice giallo, e poi rosso. Non ho nemmeno idea di cosa significhi, non sono mai stata in ospedale per cose più serie di un’ingessatura.
Dopo tanti esami e visite specialistiche, i medici ci dicono che la bambina ha una encefalite acuta molto grave. Allora do voce alla domanda più terribile, per una madre. Chiedo se morirà. Quei medici così speciali mi rispondono di non pensare neanche queste cose. Ma i loro occhi dicono il contrario.
Lia viene ricoverata in rianimazione; e d’improvviso ci troviamo catapultati in un mondo di sofferenze che non immagini nemmeno possano esistere, prima di provarle sulla tua pelle.
Per fortuna supera la notte, e vengono escluse le forme batteriche più aggressive: pneumococco, meningococco ed haemophilus, e viene parzialmente esclusa la possibilità di un’infezione da herpes virus.
I giorni eccessivi si susseguono tra alti e bassi, finché non si verifica una terribile ricaduta dei sintomi. Alla seconda risonanza magnetica, ci comunicano che le immagini mostrano delle gravi lesioni di talamo e mesencefalo. Non ho idea di cosa possa significare; in quel momento avrei soltanto voluto morire.
Ci presentano la professoressa Azzari (responsabile dell’Unità di immunopatologia clinica dell’ospedale Meyer di Firenze, NdR), che ci parla quasi come mi parlerebbe la mia mamma. Ci spiega che Lia è affetta da un grave immunodeficit, e ci spiega con parole semplici cosa sarebbe successo, e quale iter sarebbe seguito.
Non sto a dilungarmi in tutti i discorsi medici; in sintesi, alla fine si spiegano che tutto quello che è successo è stato scatenato, con buona probabilità, dalla mononucleosi infettiva, una "banale" malattia infettiva, cugina della varicella.
Sono passati più di tre anni, nel corso dei quali Lia ha dimostrato di essere incredibilmente caparbia e attaccata alla vita: di quella esperienza sono residuati una lieve perdita dell'udito, una trombosi dell'arteria femorale ed un immunodeficit serio, ma in via di risoluzione. Guarirà, crescerà, e – spero – diventerà una donna.
A noi genitori, invece, sono rimasti una ferita dolorosa che non riusciamo a far rimarginare, e un senso di paura che non conoscevamo. Abbiamo avuto un'altra bambina, perché amiamo la vita, e perché, in quei giorni, abbiamo pensato che, se Lia fosse morta, la nostra esistenza non avrebbe avuto senso.
Ma, ogni volta che la guardo, nel mio enorme amore si insinua quella paura; ancora oggi, mentre scrivo, non riesco a trattenere le lacrime.
Per la mononucleosi non esiste un vaccino; ma per molte altre, che potrebbero avere lo stesso esito, sì. Per come la vedo io, non possiamo prevedere quanta fortuna avremo nella vita; perciò, non resta che cercare di proteggerci.
Le malattie infettive sono temibili. Non vaccinarsi contro ciò che di male conosciamo, espone i nostri bambini a rischi inutili.
Aggiungo solo che Lia, per il suo immunodeficit conseguente alla mononucleosi, non potrà fare i richiami della vaccinazione contro morbillo, parotite e rosolia; e purtroppo, per questo motivo, sarebbe in pericolo qualora dovesse contrarre una di quelle malattie. Se tutti i bambini attorno a lei fossero vaccinati, anche lei sarebbe al sicuro. Purtroppo sono a conoscenza del fatto che, nella sua classe, ci sono diversi bambini non vaccinati.
Allora mi chiedo, e chiedo a tutti i genitori: non ha forse anche lei lo stesso diritto alla salute dei vostri figli?
Non aggiungerò altro, perché anche solo ricordare è davvero molto doloroso.
L'ho fatto solo nella speranza che il racconto di questa terribile esperienza, possa proteggere qualcun altro dal doverla vivere.